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La regola delle monache di Santa Prassede - Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano

Online dal 10 febbraio 1999
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La regola delle monache di Santa Prassede

Il Palazzo di Giustizia

La regola del silenzio assoluto doveva essere osservata, oltre che in momenti particolari della giornata, nei giorni dell'avvento, durante il carnevale e in quaresima. Soltanto con licenza del medico, davanti al quale si presentavano con il viso coperto, si poteva somministrare carne alle inferme. Le colpe e i difetti personali erano denunciati pubblicamente in refettorio, ogni mattina, come mortificazione.

Fu proprio nel monastero di S. Prassede - racconta il Giussano - che venne a chiudersi la contessa Corona, figlia di Gio. Battista Borromeo, e stretta parente dell'arcivescovo, la quale "sprezzando tutte le grandezze e delitie di questo falso mondo", avendo soltanto una sorella - Ippolita, moglie del conte Alberico Belgoioiso - "cinta di una grossa fune, coll'aspro bigio sulle delicate membra", entrò nel monastero con il nome di suor Elena, "a fare dura penitenza". Assalita poi da una penosa malattia, ella sopportò con pazienza e rassegnazione la dolorosa infermità, che nel giro di tre anni la condusse ad una morte aureolata dal martirio, che - conclude il cronista - la portò senz'altro "a godere di eterni riposi del Paradiso".

La vita delle monache di S. Prassede dovette scorrere serena fino all'ultimo ventennio del Settecento, quando anch'esse furono costrette a sottostare alle norme giurisdizionali di Giuseppe II, in base alle quali il monastero nel 1782 venne soppresso. Ma soltanto durante la Repubblica Cisalpina, il 17 marzo 1799, in un documento dell'Archivio storico civico, venne confermato l'atto di soppressione e in data 19 marzo fu stilato l'inventario di paramenti e suppellettili - di poco valore e logorati dall'uso - rilevati dalla Comunità.

Nel frattempo, il 27 febbraio 1801, le ex monache di S. Prassede, erano state obbligate a lasciar libero il proprio convento e a trasferirsi in locali siti in S. Barnaba, chiesero di venir rimborsate, almeno in parte, delle spese sostenute per il cambiamento di abitazione. Il ministro dell'Interno della Repubblica Cisalpina, con una sua lettera, pur facendo presente che era stata la "nazione stessa" a fornire la nuova sistemazione, diede disposizione di pagare loro sollecitamente - "attesa la specialità del caso non allegabile ad altre" - le pensioni "mensuali" arretrate, dietro dichiarazione "che con ciò s'intendono tacitate da qualunque pretesa per il suindicato oggetto". La direzione centrale dei beni nazionali provvedeva poi all'attuazione del decreto ministeriale, attraverso il proprio Agente dipartimentale d'Olona.

Due documenti del 13 giugno e del 15 luglio 1801 a noi pervenuti trattano, invece, della gestione della chiesa annessa al monastero di S. Prassede. Secondo gli ordini del ministero dell'Interno si stabiliva di subordinare a quella soppressa di S. Filippo Neri "destinata ora ad altri usi" la suddetta chiesa, "relativamente però alle pure funzioni ed atti parrocchiali da esercitarsi dal parroco o da qualunque altro sacerdote che verrà prescelto per l'esercizio di siffatte funzioni, esclusa qualunque ingerenza negli oggetti amministrativi". Inoltre si stabiliva di nominare due "fabbricieri" - sacerdote Giuseppe Cattaneo e Francesco Mussio - che avrebbero dovuto assumere l'amministrazione della chiesa per renderne conto all'Agenzia dipartimentale d'Olona. Quest'ultima decideva, poi, che i redditi di S. Prassede fossero devoluti a S. Pietro in Gessate.

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